Mi trovo nella casa della mia infanzia, in
via fornaci 10, in cucina. Sto organizzandomi per andarmene (sono stato in
visita ai miei genitori?) e mi sto guardando attorno come cercando le ultime
cose prima di scendere per le scale (forse alla ricerca di Davide e Luca... che
probabilmente sono già là sotto). Ho come la sensazione di indossare un
giubbotto nero, forse con il cappuccio di pelo (forse avevo un giubbotto così
da adolescente, ma non ne sono certo...)
È probabilmente notte, e mentre guardo di
non aver dimenticato nulla, mi chiedo dove sono esattamente Davide e Luca... è
per una questione organizzativa, di logistica, forse eravamo d’accordo di
vederci là in cucina e ho come la sensazione che si siano dimenticati di
quell’appuntamento o che non se ne preoccupino (mancanza di rispetto per me? Mi
sento dimenticato? Non valorizzato... Sono irritato? Forse, ma se sì è una
sensazione molto sottile, quasi impercettibile).
Anche se la casa dove mi trovo è quella
della mia infanzia mi sento adulto e l’atmosfera della scena che mi trovo
davanti è un po’ austera: scura, silenziosa, rigida. Davanti a me una tavola
dove i miei genitori, già seduti, stanno cominciando a cenare, ma la sensazione
è quasi quella del lutto o della tensione latente che blocca tutto. Nessuno si guarda
in faccia.
Mia madre, seduta davanti a me, dispone le
ultime cose sulla tavola affinchè il banchetto sia pronto per lei e soprattutto
per mio padre, seduto alla sua destra (e che vedo quindi seduto di fianco, alla
mia sinistra. Cioè non mi rivolge la faccia).
Dato che Davide e Luca non ci sono mi
siedo a tavola anche io. In mezzo a varie cose da mangiare accumulate una di
fianco all’altra (ma soltanto nella parte di tavola dei miei genitori) ci sono
due fette gigantesche di pizza farcite da abbondantissimo formaggio fuso per
mio padre e una per mia madre. Sono disposte sulla tavola ma non ancora sui
piatti.
Chiedo a mia madre se posso prendere un
pezzettino di pizza anche io, sicuro di una risposta affermativa, ma invece mia
madre mi blocca e dice in modo molto deciso e duro: “no no no. Ste qua e xe par
to pare” e sembra indaffararsi con le braccia sulla tavola per proteggere il
cibo da me.
Io in realtà sono fermo e non ho fatto
nessun gesto che possa essere interpretato come un movimento per prendere nulla
del loro cibo... resto piuttosto sorpreso e deluso da quella mancanza di
apertura: in fondo non è che volevo cenare, stavo solo aspettando gli altri e
la quantità di cibo era così tanta che faceva comunque un po’ strano che
volessero proprio tenersi tutto per loro, solamente.
Davvero un atteggiamento meschino.
Mio padre senza guardarmi negli occhi e
già muovendo forchetta e coltello per mangiare il suo cibo, mi dice un po’
infastidito dalla mia presenza (infatti il suo modo non è mai stato così
diplomatico da nascondere qualsiasi cosa che lo innervosisce): “se te vol ghe
xe un fià de patate lesse... ara qua”.
Il suo modo è così goffamente maleducato
che risulta quasi offensivo. Le patate lesse erano davvero misere e
sinceramente non è che mi importasse un gran ché mangiare qualsiasi cosa come
se fosse una meschina elemosina: il loro atteggiamento miserabile mi delude
davvero e mi alzo dicendo “no, no: potete tenervi le patate, tranquilli...”.
È un rifiuto di comunione, mi sento
estromesso davvero da quella triste coppia diffidente. Sembra che qualsiasi
cosa sia per loro un’invasione di territorio, che io non sia loro figlio... me
ne vado davvero offeso dentro, anche se non ho nessuna reazione stizzita:
semplicemente mi chiudo in una fredda commiserazione di quei due.
Scendo per le scale ancora colpito da
quella scena e Luca (adesso è al mio fianco destro anche se non lo vedo) mi
accompagna e quando siamo sul pianerottolo della scala, sempre scendendo, forse
mi dice qualcosa, tipo di guardare la bambina di Denis e in quel momento vedo
una stanza piena di gente (tantissima! Sembra una celebrazione, quasi, una
folla in festa?) e una bambina di 3 anni, vestita di bianco, sorridente e che
sta sopra le spalle di qualcuno (o sta a quell’altezza, in qualche modo, al
meno) e mi fa molta tenerezza e simpatica con i suoi capelli lunghi, ondulati e
scuri. In effetto lei è l’unica cosa che vedo, quasi come un’apparizione
angelica che vola sopra le teste di tantissima gente stipata in una stanza. La scena
è statica, ma non ferma. È un simbolo molto luminoso.
Siccome me ne sto andando e non ho tempo
di fermarmi con lei dico a luca che spero proprio di poterla rivedere prima che
abbia 18 anni... sarebbe bello non dover star lontano così tanto da perdersi la
sua crescita...
Adesso invece sto seduto su una sedia in
una stanza spoglia e poco illuminata. Un tavolo davanti a me e altre sedie un
po’ in disordine. Sul tavolo fogli scritti e qualche computer portatile con dei
video che girano. Sulla parete davanti a me si sta proiettando un documentario
sociale con immagini critiche.
La stanza ha una forma strana io sto come
in una nicchia scura (sembra uno sgabuzzino, neanche un ufficio...) a sinistra
della parete che ho davanti si apre un lungo corridoio scuro che si perde nell’oscurità
e che so esserci anche se non lo vedo direttamente e opposto al lato del
corridoio, alla mia sinistra, (invisibile anche questa) una porta che dà
all’esterno da dove entra la luce del sole e dove i miei colleghi (amici?
Fratelli?) stanno fuori un secondo (forse sono andati a fumare una sigaretta e
a conversare un po’ al sole).
Sto quindi là da solo in questa specie di
disordinata base di piani operativi e davanti a me il documentario mostra tutte
le incoerenze e le terribili ingiustizie della nostra società, anzi delle
istituzioni ipocrite della nostra società: appare anche Trump e le scandalose
connivenze e corruzioni tra lobbies ed elites in tutto il mondo.
Entrano dal corridoio un paio di persone
che vedo con la coda dell’occhio. Non do loro molta importanza. Stanno frugando
tra i documenti e spostano i computer come se stessero cercando qualcosa. Non
mi interesso molto alla loro presenza.
Ad un certo punto cominciano a criticare
gli argomenti del documentario e a dire che quel video era sovversivo. Molto
sovversivo! e che tutti quei video e quei documenti ci avvrebbero generato non
pochi problemi.
Pensavo stessero scherzando da quanto la
conversazione era fuori luogo, al massimo pensavo in una drammatizzazione di
opinioni molto sottili, ma vedendo che loro due invece cominciavano ad essere
sempre più evidentemente nervosi, inizio ad osservarli e noto che sono strani:
le loro magliette non hanno semplici etichette, ma sono come decorate a modo di
uniformi (tipo quelle dei film degli anni 80 in florida...).
Capisco che non stanno scherzando anche se
tutta quella scena non ha alcun senso e le accuse che stanno facendo sono così
assurde che non riescono neanche ad allarmarmi o a spaventarmi.
Si rivolgono a me dicendo che tutto quello
era inaccettabile per l’autorità e che mi ero cacciato in guai molto seri...
serio e senza essere agitato nè intimorito dico: “ma perché scusa?”
Uno dei due teatralmente alza le mani,
urla, sgrana gli occhi come un pazzo e dice: “cosa? Hai il coraggio di resistere
alla legge? Ma chi ti credi di essere? Questa la paghi eh!”
L’ingiustizia e l’assurdità di tutta
quella scena è scandalosa... le cose che mostrava il documentario erano
critiche ma erano oggettive, niente di strano... ripeto: “ma tutto questo solo
perché ho chiesto un perché?”
Il tipo sta diventando furioso e mi
minaccia sempre di più, l’altro lo asseconda.
Non sono spaventato, sono schifato da
tanta arroganza, furia e ingiustizia.
Decido che quello è davvero un po’ troppo
per provare a ragionare con tanta stolta pazzia e senza fretta e senza paura mi
alzo e vado verso la porta per uscire.
I poliziotti (o agenti della cia?)
iniziano a seguirmi, ma camminando anche loro, senza fretta.
Esco nella piazza: una piazza rotonda e
illuminata, pedonale, circondata da edifici bassi. Qualche persona cammina qua
e là. Io vado verso il centro, puntando a un uscita della zona pedonale (che è
circondata da una catena nera sorretta da dei pali di ferro regolarmente
disposti).
Mi giro e guardo la porta, vedo un tipo
magro con gli occhiali scuri e la camicia estiva chiara (stile anni 70). Sembra
uscito da un vecchio film e fumando esce dalla porta dove sono appena uscito e
mi segue. È un agente.
A metà della piazza una macchina
utilitaria, piccolina ma piuttosto nuova (tipo una fiat) si avvicina a me da
sinistra, mi affianca lentamente e si ferma. Si apre la porta dal mio lato. Da
dentro Ubi mi invita a entrare.
Perfetto: come secondo i piani.
Nel sedile dalla mia parte ci sono dei
cavi, dei caricatori da cellulare, una ciabatta per prese elettriche o qualcosa
del genere (tutto grigio). Siccome tutto va lento, ma in fondo mi stanno
seguendo e non c’è tempo da perdere, entro in macchina senza sedermi davvero
sul sedile occupato dai cavi, do un bacio a Ubi e le dico di partire subito.
Lei parte ma tutto continua ad andare
lento: siamo adesso davanti alla catena nera che divide la zona pedonale dalla
strada più o meno trafficata. Ci sono anche dei veicoli come quelli che trasportano
le valigie negli areoporti (quelle specie di carrettini tipo vagoni che
lentamente si mettono in mezzo al transito di persone che hanno fretta). Ubi
ferma la macchina in attesa che il trenino di carrettini passi e anche senza
sapere bene come passare la catena, probabilmente.
Arriva un altro trenino che sta per
mettersi in mezzo anche lui, ma il primo è quesi passato completamente, solo
che si ferma e torna indietro bloccandoci completamente la via d’uscita.
Ubi sbuffa come per dire: “che palle, non
si passa” ma io dico: “non ci lasciano passare perché sono degli agenti! Lo
fanno di proposito”.
La sensazione infatti è di essere in una
realtà tipo matrix dove stanno cercando di bloccare la nostra fuga. Dico a Ubi
di passare sopra la catena e ai carretti. Non ho dubbi, non ci sarà nessun
problema.
Ubi va avanti e passa sopra a catena e
trenino superando gli ostacoli con fluidezza e normalità. Avanziamo nella
strada.
Stiamo infatti andando nella base degli
agenti segreti nemici.
Guardo Ubi con ammirazione e amore
profondo e le dico “sei brava”.
Arriviamo alla base, parcheggiamo e
scendiamo. Conosco quel posto.
Non c’è nessuna porta da aprire in quella
specie di fabbricone senza finestre. Entriamo nel corridoio scuro che è l’entrata
della base. Guido Ubi mano nella mano.
So cosa devo fare: devo scontrarmi con
quei nemici entrando nel vero nucleo di tutto, ma ho la sensazione che tutto
quello sia un grandissimo déjà vu interminabile: so che dovrò sacrificarmi,
probabilmente morirò, ma non ho nessun dubbio: è ciò che devo fare.
Un velo di eroismo guida i miei movimenti,
ma la sensazione di dover sacrificarmi, più che una sensazione drammatica è un
senso di liberazione e giustizia (inoltre la profonda sicurezza di aver già
vissuto quella situazione e quei posti proviene dal ricordo di una vita passata
dove tutto questo era già successo e mi lascia un senso di ciclicità. Quindi
anche questa morte sarà solo la porta per una nuova vita futura, in fondo...).
Il corridoio (rosso scuro) si apre davanti
in una stanza: il nucleo dei nemici dove dovrò ammazzare il nemico (e verrò
probabilmente ucciso nella giusta e inevitabile azione). La stanza non ha porte
e sta a pochi metri da me. Non la vedo direttamente ma so benissimo com’è: la
stanza si sviluppa a sinistra del corridoio e entrandoci mi troverei davanti ad
un ambiente scuro con una tavola vuota e qualche sedia di ferro
disordinatamente disposta l’a attorno. Un basso lampadario illuminerebbe in
modo drammatico quella tavola dove ci sarebbe solo una persona seduta al lato
stretto, una persona che mi darebbe le spalle, un tipo che indossa un cappello
e di cui non si vedrebbe la faccia e che sta là, in silenzio, davanti alla
tavola vuota. Sembra una classica sala di congiure segrete dei film e forse
nell’ombra c’è anche qualcuno in piedi, tipo una guardia del corpo... non so. O
forse questo personaggio sta solo in quell’ambiente desolato e immobile.
So dunque che là c’è l’epilogo di tutta
questa questione e che lì la farò finita con tutta sta storia e probabilmente
morirò, ma prima di fare tutto questo devo mettere Ubi in salvo in un posto
sicuro. So che c’è una porta segreta nel corridoio, eccola, è qua a destra.
Sono tra un paio di porte di legno, mimetiche da fuori, sto entrando nella
stanza che sta oltre quell’entrata, ma siccome conosco l’edificio, ricordo
adesso che là non è un posto sicuro: lì ci sono sicuramente dei nemici. I ricordi
che provengono dalla mia vita passata sono sicuri, ma non sempre immediatamente
chiari al 100% e a volte mi confondo un poco, anche se tutto è familiare.
Torno nel corridoio dove stavamo prima e
trovo un’altra entrata segreta a sinistra: è là il posto sicuro dove lasciare
Ubi, prima di entrare davvero nel pericolo.
Si apre un nuovo corridoio con forma di un
2... il primo pezzo è la base del 2,la parte dritta, e a sinistra c’è l’angolo
stretto che apre il passaggio al percorso curvo che porterà a una sala, la sala
sicura, finalmente.
La sensazione è di entrare in un labirinto
senza ostacoli, con entrate segrete e contorte, ma che ricordo di conoscere
bene e che so percorrere senza problemi.
Guido ancora Ubi per mano e adesso sto
entrando nella stanza. Là vedo che ci sono 4 o 5 persone sedute su un divano, tutti
piuttosto immobili, seduti non troppo ordinatamente, ma come se stessero
assistendo a qualcosa che succede nella mia direzione (tipo un pubblico? Qualcuno
che vede un film?). Mi entra un dubbio... saranno nemici? Non dovrebbero
esserlo...
Ho bisogno di un’arma per difendermi e per
questo mi si materializza una pistola in mano perché penso che devo difendere
Ubi (so che quell’arma l’ho creata io all’occorrenza e mi sorprende un po’
anche nel sogno, ma non ho molto tempo di pensarci) e quando siamo ormai dentro
la sala capisco di non essere in pericolo davanti a loro e dico: “ma voi non
siete nemici, vero?”
Non lo sono, sono alleati.
Vado oltre il divano e trovo una stanzina
o un armadio scuro e segreto. Là lascio Ubi ben nascosta, siamo accucciati, con
la mia faccia vicino alla sua la guardo con amore e la saluto con un bacio.
Mi giro: devo andare al nucleo dei nemici
a porre fine alla questione.
È arrivato il momento.
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