La sveglia suonò.
Lele lentamente si tirò su e si mise
seduto sul letto.
Uno sbadiglio profondo.
Si mise a cercare le ciabatte con la punta
dei piedi.
Eccole: il mondo ricominciava ad aver
coerenza.
Tutto cominciò normalmente, quel giorno. D'altronde
si trattava semplicemente di un giorno normale, come tutti gli altri.
Un normalissimo giorno piatto, così come la
pianura infinita.
E non è tanto per dire: la realtà, in
giorni così identici, è davvero appiattita fino all'estremo. Non c’è nessun
picco, né un rilievo che muti il paesaggio. Ciò che potrebbe di fatto rendere
diversi i giorni, occupa il minor spazio possibile, come la terra sotto
all'orizzonte: In tutte le direzioni, uniformemente, la stessa normalità,
uguale, indistinta, monotona.
In giorni così, o in paesaggi di questo
tipo, dove non si vede una fine ad altezza d’uomo, quello che domina non è la
terra sotto l’orizzonte, o la realtà oggettiva insomma, ma invece è il cielo,
il cielo sopra di tutto.
I suoi spazi infiniti, che cambiano con le
ore, con i giorni, con le stagioni, e che invitano a sognare fluttuanti realtà fantasticate.
E cioè realtà inesistenti.
Irraggiungibili.
Ma per ora Lele si stava solo lavando la
faccia per cominciare velocemente la sua giornata.
Si muoveva per la casa con il pilota
automatico.
A quest’ora non c’era assolutamente spazio
per nessun pensiero profondo, ne per svolazzi di chissà quale fantasia.
Più tardi, forse sì, chissà. Ma in questi primi istanti del mattino no, non c’è
proprio tempo per le fantasticherie e neanche per i sogni.
E non intendo i sogni di caldi futuri
immaginari, leggeri ed affettuosi, no: parlo proprio dei sogni spiccioli,
quelli di ogni notte, se qualcuno mai se li ricorda. Quelli interrotti dalla
sveglia qualche minuto prima di alzarsi da letto e che, appena si aprono gli
occhi, vengono falciati via come se fossero erbacce nel giardino di casa, una
domenica mattina, di primavera.
I sogni...
Cose inutili.
Senza senso.
“Mejo
un café e do biscoti. E via, come senpre.” Pensava Lele a quest’ora. Su tutto.
Dopo 15 minuti di rapida preparazione
rutinaria, era finalmente pronto per affrontare l’infinito e sempre uguale mondo
esterno.
Prese le chiavi della macchina e aprì la
porta per uscire: in una ventina di minuti, se non c’era traffico, sarebbe
arrivato puntuale, come sempre, in capannone. Al paròn piacevano le persone puntuali.
Ma appena chiusa la porta dietro di sé,
già con un passo automatizzato in direzione del garage, qualcosa di indistinto,
là fuori per strada, gli creò per un
breve istante un breve cortocircuito.
Lele si fermò.
Il mondo, a quell'ora, Lele lo conosceva
alla perfezione, in ogni suo dettaglio: un perfetto movimento collettivo,
assonnato ma sincronizzato, con odori e rumori specifici che erano sempre
quelli. E che davano la certezza di non star ancora sognando a letto.
Ma qualcosa, quel giorno, era diverso.
Dietro alla siepe di casa sua, per strada,
non c’era quel solito viavai rituale di macchine appena accese tutte dirette
verso il proprio luogo di lavoro ordinate e puntuali come automi telecomandati.
C’era invece un brusio di voci.
E c’era della gente!
Gente!
Gente che si guardava attorno, un po’
confusa.
Qualcuno, appena uscito da casa, senza
capire niente, abbozzava una domanda al vicino.
E il vicino faceva una faccia strana come
per dire “e ché ne so, io?”.
Anzi, a dirla tutta, il vicino diceva
proprio un vero “e cossa vutu che ghe ne
sapie mi?”
Lele si passò la mano davanti alla faccia,
si stropicciò gli occhi e tornò a guardare incredulo fuori dal suo giardinetto
per capire cosa diavolo stava succedendo.
La sua bocca semiaperta e la sua
espressione non proprio scaltra, che erano sicuramente dovute principalmente al
sonno mattutino, non lasciavano però molti dubbi sul fatto che anche lui non ci
stesse capendo un gran ché su tutta sta storia.
Gente per strada...
di mattina...
in un giorno lavorativo...
così... senza motivo...
Assurdo.
Vista la situazione eccezionale, Lele decise
di interrompere il suo quotidiano e automatico percorso verso l’automobile e,
spinto dallo stupore e dalla curiosità di capirne di più, aprì il cancello del
suo giardinetto e guardò per strada a destra e a sinistra.
C’erano molte persone per strada, tutte
con la sua stessa espressione smarrita, ma la cosa più sconcertante era un’altra:
Tutti, ma proprio tutti, erano vestiti di
bianco!
Lele non poteva crederci... sembrava uno
di quei film strani, inspiegabili, che nessuno capiva... una specie di nuova
serie di Netflix... una di quelle mezzo inquietanti.
Con un istintivo riflesso spontaneo dovuto
a un antico e segreto senso di inadeguatezza cronico, Lele abbassò lo sguardo
per vedere se i suoi vestiti stonassero in mezzo a tutta quella uniformità
cromatica, ma si rese conto con stupore che, anche lui, per puro caso, quella
mattina si era vestito completamente di bianco!
“Che
coincidensa assurda!”
pensò “no me vestisso mai de bianco, mi...”.
Non ricordava neanche, a dire il vero, di
aver mai comprato o indossato dei vestiti bianchi, ma quella era l’ultima delle
sue preoccupazioni in quel momento.
In un modo che non si può certo definire
molto originale, Lele si avvicinò a uno dei suoi vicini di casa che era appena
uscito dal suo giardinetto: sguardo stranito e vestito di bianco anche lui,
bocca spalancata e senza parole. Anche lui.
Lele parlò con la voce roca di uno appena
sveglio e, mentre si guardava attorno, gli chiese: “ma... Michele... ma cossa sucede qua?”
Michele lo guardò con gli occhi
spalancati, stupito come se vedesse un fantasma, e disse: “e cossa vutu che ghe ne sapie mi?”
Lele incassò la prevedibile risposta,
sentendosi un po’ meno intelligente di Michele, che invece si era difeso
verbalmente nel modo giusto, anche se in fondo entrambi ne capivano esattamente
uguale rispetto a tutta quella situazione.
Lele si sentì di avere almeno il diritto
di aggiungere un’altra osservazione: “sì,
ma par cossa xeo che te sì vestìo de bianco?”
Michele lo guardò con un fare infastidito:
“xe par coincidensa che me go vestìo
cussita, mi! Mi no me vestisso mai de bianco! E ti invesse? Par cossa te gatu
vestìo de bianco, ti, come tuti chealtri?”
Lele guardò da un’altra parte e borbottò
qualcosa simile a un abbozzato “ma va in
mona” (che era la conclusione che tutti si aspettavano a una conversazione
logica in a una situazione assurda come quella).
Perciò nessuno si offese e Lele si
allontanò dal suo vicino di casa e si avviò verso la piazza del paesello di
Ca’Bromestega.
Durante quei quattro passi che lo
separavano dall'incrocio che tutti consideravano tradizionalmente la piazza
centrale di Ca’Bromestega, Lele aveva potuto ascoltare per sbaglio ciò che si
dicevano degli altri vicini.
Tutti si chiedevano il perché di quella
situazione, ma nessuno aveva una risposta. Qualcuno si ricordava che comunque doveva
andare a lavorare subito per non fare in ritardo, ma qualcun altro lo avvertiva
che ci avevano già provato, ma oggi le automobili non funzionavano...
“A
te vedarà che anca sto colpo go da ciamar el mecanico!”
Un po’ tutte le conversazioni, poi, finivano
con un vago “ma va in mona”, o
qualcosa del genere, abbozzato tra le labbra di questo o quel vicino.
Arrivato in piazza Lele vide che c’era una
piccola folla di concittadini, tutti abbigliati di bianco come lui e dello
stesso umore.
Solo una persona era vestita di nero e per
questo era diventata, chiaramente, il centro di tutta l’attenzione di quella
piccola folla.
Portava in mano un grande crocifisso: era
il parroco, don Gino.
Ma neanche lui non sembrava
particolarmente a suo agio...
Stavolta non sembrava essere a causa del
ronzio costante delle bestemmie che, involontariamente, aprivano e chiudevano
gran parte delle conversazioni dei fedeli della sua parrocchia. Sembrava invece
che anche lui non sapesse esattamente cosa dire o cosa fare in quella situazione
strana...
Allo stesso tempo però tutti gli
chiedevano spiegazioni dettagliate su cosa stesse succedendo: in fondo era
l’unico vestito di nero, qualcosa avrà pur voluto pur dire, no?
Il prete era della stessa opinione e ci
provava a dare spiegazioni, ma tutte le volte che cominciava ad abbozzare una
risposta, subito si distraeva e tornava a guardarsi in giro con quell’aria un
po’ persa.
Contava i fedeli vestiti di bianco. Il
grosso crocefisso sembrava impacciarlo, non sapeva dove metterlo, perché mai lo
aveva preso? Gesù dalla croce osservava tutti con un’aria tra il melanconico e il
disinteressato.
Insomma, don Gino non ci capiva niente
come tutti gli altri.
Ogni tanto, tra una frase e l’altra,
sembrava recitare anche un Ave Maria,
ma forse si trattava solo di un’esclamazione.
Tutti i vicini di Ca’Bromestega ormai
erano in piazza: uomini e donne, vecchi e bambini.
E tutti vestiti di bianco.
Il parroco ad un certo punto decise di
interrompere il brusio di domande, bestemmie involontarie, risposte sgarbate e
di “va in mona” di chiusura di
conversazione. Prese coraggio e parlò forte sopra alle voci di tutti e disse:
“Fratelli,
beh, siamo tutti qui riuniti... in pace... siamo qui tutti, insieme, nel nome
di Dio... e tra l’altro ho appena
sentito il Sindaco... e come avete visto tutti, mi ha confermato che oggi è
giorno di festa. Gloria al Signore, quindi. Vedo che tutti siete svegli e vestiti
come si deve. Oggi è un grande giorno di celebrazione... evidentemente...
quindi ringraziamo il signore nostro Dio per questo evento e... e dunque...
incamminiamoci fratelli, sù, dai.”
La gente si guardò senza afferrare bene il
messaggio: oggi non era un giorno di festa: era un giorno di lavoro! Capannoni,
trattori, camion, consorzi, muletti e fatture... Produzione, insomma! ma di che
festa stavano parlando?
I bambini invece saltavano e correvano tra
le gambe della gente imbronciata, felici di avere un giorno di inaspettata
vacanza da scuola.
Le vecchie erano già pronte: tutte avevano
portato da casa, per precauzione, il rosario di plastica bianco nel caso ci
fosse qualcosa da pregare. E infatti avevano indovinato!
I vecchi invece avevano un tipo di
conversazione diversa con la divinità: non adoperavano il rosario e tendevano piuttosto
a rinfacciare dettagliatamente a Dio le cose non erano state fatte come si
deve.
Il parroco decise di dare un movimento a
quella baraonda e iniziò a camminare verso una stradina qualsiasi.
Alla fine, anche se un po’ di controvoglia,
tutti iniziarono a formare una lunga processione borbottante, confusa e
rassegnata.
Seguivano il crocifisso a testa bassa,
poco convinti che quello fosse il giorno giusto per fare quelle cose sacre, ma
se proprio c’era la processione da fare e se lo diceva il prete e il Sindaco,
allora la processione andava fatta e basta.
La fila di gente vestita di bianco era
ormai avviata.
Ogni tanto il parroco diceva qualche
parola santa e il resto della gente ascoltava o ripeteva con tono di
lamentazione, soprattutto le vecchiette.
Una voce stridula, di colpo, stonò dentro
a quel cantilenare liturgico e distratto: era la voce di Alvise Sartor, detto “Schivanèa”: un ragazzino di 5 anni,
figlio del panettiere.
Il ragazzino, inspiegabilmente, tutto d’un
tratto chiese al parroco, gridando a squarciagola:
“Don
Gino, don Gino! Ma per chi è questa processione?”
Tutti si fermarono di scatto.
Il dubbio tornò a serpeggiare tra le anime
dei fedeli spaesati.
Un silenzio teso calò di colpo su tutti
presenti.
Tutti erano in attesa di una risposta a
questo importantissimo e urgente quesito che nessuno aveva proprio previsto.
Il parroco, un po’ a disagio, deglutì,
poi guardò al cielo e disse: “questa
processione...”
Poi attese qualche lunghissimo secondo in
silenzio... (i parroci, si sa, sanno come catturare l’attenzione del pubblico:
è una deformazione professionale, lo fanno anche senza volerlo. È più forte di
loro). Alla fine disse, come fosse una liberazione:
“Questa
processione è per la Madonna.”
Tutti sospirarono di sollievo e gridarono “per la Madonna! Per la Madonna!”
I presenti tornarono allora a star sereni
e ripresero di nuovo la processione, anche se sempre a testa bassa e a muso
duro.
Sembrava che adesso tutto fosse finalmente
tranquillo.
La bianca carovana di persone assonnate
avanzò senza intoppi per qualche altro minuto ancora (senza per altro aver
molto chiaro dove stava andando...), ma ben presto Schivanèa, che era rimasto pensieroso alla risposta del parroco,
urlò di nuovo con quella sua vocina fastidiosa:
“Sì,
ma che Madonna è? La Madonna nera? La Madonna Vergine? La Madonna
addolorata?... ce ne sono tante di Madonne... mica solo una! ...e questa che
Madonna è?”
Subito la madre fece volare una sventola
sulla nuca del ragazzino per farlo star zitto una volta per tutte, ma era già
troppo tardi: tutta la gente cominciò di nuovo a inquietarsi e questa volta la
questione sollevata era davvero troppo difficile da risolvere per tornare a
star tranquilli come se niente fosse.
Ognuno ormai aveva il dovere di commentare
il suo punto di vista.
C’era chi avanzava dubbi sul fatto che davvero
ci fosse “la Madonna giusta”.
Altri, più sbrigativi, ne proponevano una
classica, ben conosciuta da tutti, che va sempre bene.
Altri ancora invece volevano approfittare
di quella inusuale occasione per dar più luce a una di quelle Madonne che di
solito non vengono quasi mai celebrate. Citavano nomi mai sentiti prima.
C’era poi anche chi discuteva in modo
molto accanito solo per dire che in fondo bisognava essere più concilianti: una
Madonna vale l’altra e era solo il caso di sceglierne una qualsiasi e di
continuare a camminare.
Infine chi non credeva alla Madonna non
riteneva che, solo per questo fatto, non dovesse dire la sua: ognuno era libero
di argomentare il proprio parere riguardo alla Madonna più opportuna per questa
processione, fosse egli credente oppure no.
Il brusio era ormai onnipresente. Non si
riusciva più a capire niente. Era un caos. L’anarchia!
Tutto sembrava ormai essere andato per
sempre alla deriva.
Ma a volte succede che, in mezzo al
frastuono e alla confusione, appare uno di quei momenti inspiegabili in cui
tutti tacciono contemporaneamente proprio mentre qualcuno dice la cosa
importante. In quei momenti miracolosi il baccano svanisce di colpo come per
magia e nell'istante successivo, inondato del più cristallino silenzio, si
sente solo un’unica voce e niente più.
Il messaggio pronunciato in un momento
come questi non può essere ignorato da nessuno.
Fu Alessandro Sartor, il fratello minore
di Schivanèa, che aprì bocca al momento giusto, e gridò, ridendo, la sua idea
personale:
“lo
so io! Lo so io! È per la Madonna della Bomba Atomica!”
Il mistico silenzio aveva oramai reso la
frase imponente.
Tutti rimasero zitti e si girarono a
guardare il bimbo, di tre anni, vestito per coincidenza di bianco anche lui:
rideva felice, tutto fiero di aver dato la sua opinione e che tutti la avessero
ascoltata attentamente.
Era evidente che ai suoi occhi di bimbo la
proposta gli risultava geniale, bellissima, sublime, un’ispirazione per tutti.
A questo punto però nessuno sapeva più
cosa dire.
Cedettero dunque la responsabilità della
decisione al prete.
Anche il parroco era senza parole e si
guardava attorno per capire cosa ne pensavano i fedeli e cercare aiuto.
Un vecchio con il cappello (bianco anche
quello), stanco di tutta quella solfa, ruppe il silenzio e disse: “va ben, va ben. A Madona de a Bonba
Atomica... va ben, dai. Se ghe xe a Madona de a peste e a Madona de a batalia,
va ben anca questa, ciò! Basta che ndemo vanti però, che mi me go zà stufà de
caminar. E me fa mal i ossi”
Tutti ascoltarono un po’ stupiti quelle
ultime sorprendenti, ma ragionevoli parole.
Nessuno disse più nulla.
In fondo nessuno voleva complicare oltre
la già complessa situazione del parroco e nessuno voleva, soprattutto, cominciare
a porsi troppe domande... perché a domanda, risposta... e questo può essere un
gioco molto pericoloso per la stabilità psicologica di una comunità in una
situazione di confusione e smarrimento così grande.
Quindi praticamente tutti abbassarono la
testa e ricominciarono a dondolare lentamente per far riprendere al più presto
la processione.
Il parroco, un po’ incredulo, ma spinto
dalla volontà dei suoi fedeli, accettò la sua nuova missione cristiana di guidare
i concittadini a di celebrare questa nuova e sconosciuta Madonna della Bomba Atomica.
Don Gino si ricompose rapidamente, fece
una faccia seria e sicura, e alzò il crocifisso in aria, dicendo forte: “Madonna della Bomba Atomica, prega per
noi!”
Alcuni non erano entusiasti di questa
nuova Madonna: trovavano l’idea vagamente sacrilega, ma d'altronde, se il prete
la accettava, in fondo, qualcosa di giusto doveva pur esserci.
Era lui l’esperto, tutto sommato.
Un professionista del settore sa sicuramente
di cosa si sta parlando.
Così anche quelli accettarono di seguire
docilmente il gruppo in processione, criticando (questo sì) tutta quella
storia, in modo da avere comunque sempre ragione.
Dicevano: “tanto se el prete el se sbalia
xe colpa sua: el xe lù chel ga dito de sì a tuta sta storia dea bonba atomica.
El se a vedarà lù, dopo, co so paròn, là sora...”
Risolti quindi i dubbi teologici degli
ultimi fedeli poco convinti, finalmente adesso tutto poteva avviarsi tranquillamente.
Tutti avevano assunto la loro posizione e
le loro responsabilità sociali.
Tutto in ordine insomma. Tuto puìto.
La processione finalmente riuscì ad andare
avanti per un bel pezzo con una certa sacralità e non si poteva negare che
cominciava ad essere abbastanza soddisfacente da tutti i punti di vista.
Il parroco guardò compiaciuto la fila di
persone dietro di lui e si tranquillizzò: tutto adesso era sotto controllo. Adesso
sì sembrava una processione vera, come tutte le altre, una processione come si
deve!
Tutto troppo bello per essere vero,
insomma... ed ecco che, con un certo spavento, don Gino sentì qualcuno che gli
strattonava la saia con insistenza... quel giorno il Signore lo voleva proprio
mettere alla prova...
Con un pizzico di panico controllato il
prete guardò in basso temendo di imbattersi in una nuova complicazione
imprevista...
Ed eccolo: era di nuovo Alessandro Sartor,
quel piccolo bambino, precoce inventore della dedicatoria divina di quella
strana processione.
Tirava la saia del parroco per attirare la
sua attenzione: voleva dirgli qualcosa.
Il bamboccio evidentemente ci aveva preso
gusto ad essere ascoltato.
Sicuramente adesso voleva aggiungere più
dettagli alla sua creatività mistica riguardo alla Madonna, trasformando così la
sua vittoria sociale in un vero e proprio trionfo.
Il prete sentì sulla fronte una goccia di
sudore freddo...
“Che
cosa c’è Alessandro?”
chiese il parroco inquieto...
Alessandro, ridendo, rispose:
“Don
Gino, la Madonna della Bomba Atomica ha la pelle verde! E ha le ali da
farfalla!”
Don Gino si guardò intorno, con un sorriso
isterico e uno sguardo insicuro.
I fedeli attorno invece lo stavano
guardando imbronciati, seri e inquisitori, osservandolo attentamente, con una
certa minacciosità...
Il prete allora tentò la soluzione più
sbrigativa: guardò il bimbo e disse ad alta voce: “certo, Alessandro. La Madonna della Bomba Atomica è verde e ha le ali
da farfalla”.
Poi aspettò ad occhi chiusi la reazione
della comunità, sperando nel miracolo.
Tutti risposero forte in coro “Amen!” e si rimisero in marcia.
La processione continuò per quasi tutta la
giornata, facendo il giro di tutte le stradine del paese, alcune anche cinque
volte.
E questa volta tutto continuò senza più
nessun intoppo.
Contro ogni previsione quindi anche quel
giorno fu solo un altro giorno di normalità in pianura e tutto filò liscio e
tranquillo come sempre nel paese di Ca’Bromestega.
La sera tutti tornarono a casa stanchi, ma
anche abbastanza soddisfatti.
Solo più tardi, al tramonto, si alzò un vento
freddo, improvviso e minaccioso.
In lontananza, nell'orizzonte, una grande
nube, come una colonna gigantesca, si elevò nel cielo rosso.
Ma non era una nube di pioggia.
Lo adoro!!!!
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