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Friday, 19 June 2020

la madonna della B.A.


La sveglia suonò.
Lele lentamente si tirò su e si mise seduto sul letto.
Uno sbadiglio profondo.
Si mise a cercare le ciabatte con la punta dei piedi.
Eccole: il mondo ricominciava ad aver coerenza.

Tutto cominciò normalmente, quel giorno. D'altronde si trattava semplicemente di un giorno normale, come tutti gli altri.
Un normalissimo giorno piatto, così come la pianura infinita.

E non è tanto per dire: la realtà, in giorni così identici, è davvero appiattita fino all'estremo. Non c’è nessun picco, né un rilievo che muti il paesaggio. Ciò che potrebbe di fatto rendere diversi i giorni, occupa il minor spazio possibile, come la terra sotto all'orizzonte: In tutte le direzioni, uniformemente, la stessa normalità, uguale, indistinta, monotona.
In giorni così, o in paesaggi di questo tipo, dove non si vede una fine ad altezza d’uomo, quello che domina non è la terra sotto l’orizzonte, o la realtà oggettiva insomma, ma invece è il cielo, il cielo sopra di tutto.
I suoi spazi infiniti, che cambiano con le ore, con i giorni, con le stagioni, e che invitano a sognare fluttuanti realtà fantasticate.
E cioè realtà inesistenti.
Irraggiungibili.

Ma per ora Lele si stava solo lavando la faccia per cominciare velocemente la sua giornata.
Si muoveva per la casa con il pilota automatico.
A quest’ora non c’era assolutamente spazio per nessun pensiero profondo, ne per svolazzi di chissà quale fantasia. Più tardi, forse sì, chissà. Ma in questi primi istanti del mattino no, non c’è proprio tempo per le fantasticherie e neanche per i sogni.
E non intendo i sogni di caldi futuri immaginari, leggeri ed affettuosi, no: parlo proprio dei sogni spiccioli, quelli di ogni notte, se qualcuno mai se li ricorda. Quelli interrotti dalla sveglia qualche minuto prima di alzarsi da letto e che, appena si aprono gli occhi, vengono falciati via come se fossero erbacce nel giardino di casa, una domenica mattina, di primavera.

I sogni...
Cose inutili.
Senza senso.
“Mejo un café e do biscoti. E via, come senpre.” Pensava Lele a quest’ora. Su tutto.

Dopo 15 minuti di rapida preparazione rutinaria, era finalmente pronto per affrontare l’infinito e sempre uguale mondo esterno.
Prese le chiavi della macchina e aprì la porta per uscire: in una ventina di minuti, se non c’era traffico, sarebbe arrivato puntuale, come sempre, in capannone. Al paròn piacevano le persone puntuali.
Ma appena chiusa la porta dietro di sé, già con un passo automatizzato in direzione del garage, qualcosa di indistinto, là fuori per strada, gli creò  per un breve istante un breve cortocircuito.
Lele si fermò.
Il mondo, a quell'ora, Lele lo conosceva alla perfezione, in ogni suo dettaglio: un perfetto movimento collettivo, assonnato ma sincronizzato, con odori e rumori specifici che erano sempre quelli. E che davano la certezza di non star ancora sognando a letto.
Ma qualcosa, quel giorno, era diverso.

Dietro alla siepe di casa sua, per strada, non c’era quel solito viavai rituale di macchine appena accese tutte dirette verso il proprio luogo di lavoro ordinate e puntuali come automi telecomandati.
C’era invece un brusio di voci.
E c’era della gente!
Gente!
Gente che si guardava attorno, un po’ confusa.
Qualcuno, appena uscito da casa, senza capire niente, abbozzava una domanda al vicino.
E il vicino faceva una faccia strana come per dire “e ché ne so, io?”.
Anzi, a dirla tutta, il vicino diceva proprio un vero “e cossa vutu che ghe ne sapie mi?”
Lele si passò la mano davanti alla faccia, si stropicciò gli occhi e tornò a guardare incredulo fuori dal suo giardinetto per capire cosa diavolo stava succedendo.
La sua bocca semiaperta e la sua espressione non proprio scaltra, che erano sicuramente dovute principalmente al sonno mattutino, non lasciavano però molti dubbi sul fatto che anche lui non ci stesse capendo un gran ché su tutta sta storia.
Gente per strada...
di mattina...
in un giorno lavorativo...
così... senza motivo...
Assurdo.

Vista la situazione eccezionale, Lele decise di interrompere il suo quotidiano e automatico percorso verso l’automobile e, spinto dallo stupore e dalla curiosità di capirne di più, aprì il cancello del suo giardinetto e guardò per strada a destra e a sinistra.
C’erano molte persone per strada, tutte con la sua stessa espressione smarrita, ma la cosa più sconcertante era un’altra:
Tutti, ma proprio tutti, erano vestiti di bianco!
Lele non poteva crederci... sembrava uno di quei film strani, inspiegabili, che nessuno capiva... una specie di nuova serie di Netflix... una di quelle mezzo inquietanti.
Con un istintivo riflesso spontaneo dovuto a un antico e segreto senso di inadeguatezza cronico, Lele abbassò lo sguardo per vedere se i suoi vestiti stonassero in mezzo a tutta quella uniformità cromatica, ma si rese conto con stupore che, anche lui, per puro caso, quella mattina si era vestito completamente di bianco!
“Che coincidensa assurda!” pensò “no me vestisso mai de bianco, mi...”.
Non ricordava neanche, a dire il vero, di aver mai comprato o indossato dei vestiti bianchi, ma quella era l’ultima delle sue preoccupazioni in quel momento.
In un modo che non si può certo definire molto originale, Lele si avvicinò a uno dei suoi vicini di casa che era appena uscito dal suo giardinetto: sguardo stranito e vestito di bianco anche lui, bocca spalancata e senza parole. Anche lui.
Lele parlò con la voce roca di uno appena sveglio e, mentre si guardava attorno, gli chiese: “ma... Michele... ma cossa sucede qua?”
Michele lo guardò con gli occhi spalancati, stupito come se vedesse un fantasma, e disse: “e cossa vutu che ghe ne sapie mi?”
Lele incassò la prevedibile risposta, sentendosi un po’ meno intelligente di Michele, che invece si era difeso verbalmente nel modo giusto, anche se in fondo entrambi ne capivano esattamente uguale rispetto a tutta quella situazione.
Lele si sentì di avere almeno il diritto di aggiungere un’altra osservazione: “sì, ma par cossa xeo che te sì vestìo de bianco?”
Michele lo guardò con un fare infastidito: “xe par coincidensa che me go vestìo cussita, mi! Mi no me vestisso mai de bianco! E ti invesse? Par cossa te gatu vestìo de bianco, ti, come tuti chealtri?”
Lele guardò da un’altra parte e borbottò qualcosa simile a un abbozzato “ma va in mona” (che era la conclusione che tutti si aspettavano a una conversazione logica in a una situazione assurda come quella).
Perciò nessuno si offese e Lele si allontanò dal suo vicino di casa e si avviò verso la piazza del paesello di Ca’Bromestega.

Durante quei quattro passi che lo separavano dall'incrocio che tutti consideravano tradizionalmente la piazza centrale di Ca’Bromestega, Lele aveva potuto ascoltare per sbaglio ciò che si dicevano degli altri vicini.
Tutti si chiedevano il perché di quella situazione, ma nessuno aveva una risposta. Qualcuno si ricordava che comunque doveva andare a lavorare subito per non fare in ritardo, ma qualcun altro lo avvertiva che ci avevano già provato, ma oggi le automobili non funzionavano...
“A te vedarà che anca sto colpo go da ciamar el mecanico!”
Un po’ tutte le conversazioni, poi, finivano con un vago “ma va in mona”, o qualcosa del genere, abbozzato tra le labbra di questo o quel vicino.

Arrivato in piazza Lele vide che c’era una piccola folla di concittadini, tutti abbigliati di bianco come lui e dello stesso umore.
Solo una persona era vestita di nero e per questo era diventata, chiaramente, il centro di tutta l’attenzione di quella piccola folla.
Portava in mano un grande crocifisso: era il parroco, don Gino.
Ma neanche lui non sembrava particolarmente a suo agio...
Stavolta non sembrava essere a causa del ronzio costante delle bestemmie che, involontariamente, aprivano e chiudevano gran parte delle conversazioni dei fedeli della sua parrocchia. Sembrava invece che anche lui non sapesse esattamente cosa dire o cosa fare in quella situazione strana...
Allo stesso tempo però tutti gli chiedevano spiegazioni dettagliate su cosa stesse succedendo: in fondo era l’unico vestito di nero, qualcosa avrà pur voluto pur dire, no?
Il prete era della stessa opinione e ci provava a dare spiegazioni, ma tutte le volte che cominciava ad abbozzare una risposta, subito si distraeva e tornava a guardarsi in giro con quell’aria un po’ persa.
Contava i fedeli vestiti di bianco. Il grosso crocefisso sembrava impacciarlo, non sapeva dove metterlo, perché mai lo aveva preso? Gesù dalla croce osservava tutti con un’aria tra il melanconico e il disinteressato.
Insomma, don Gino non ci capiva niente come tutti gli altri.
Ogni tanto, tra una frase e l’altra, sembrava recitare anche un Ave Maria, ma forse si trattava solo di un’esclamazione.

Tutti i vicini di Ca’Bromestega ormai erano in piazza: uomini e donne, vecchi e bambini.
E tutti vestiti di bianco.
Il parroco ad un certo punto decise di interrompere il brusio di domande, bestemmie involontarie, risposte sgarbate e di “va in mona” di chiusura di conversazione. Prese coraggio e parlò forte sopra alle voci di tutti e disse:
“Fratelli, beh, siamo tutti qui riuniti... in pace... siamo qui tutti, insieme, nel nome di Dio...  e tra l’altro ho appena sentito il Sindaco... e come avete visto tutti, mi ha confermato che oggi è giorno di festa. Gloria al Signore, quindi. Vedo che tutti siete svegli e vestiti come si deve. Oggi è un grande giorno di celebrazione... evidentemente... quindi ringraziamo il signore nostro Dio per questo evento e... e dunque... incamminiamoci fratelli, sù, dai.”
La gente si guardò senza afferrare bene il messaggio: oggi non era un giorno di festa: era un giorno di lavoro! Capannoni, trattori, camion, consorzi, muletti e fatture... Produzione, insomma! ma di che festa stavano parlando?

I bambini invece saltavano e correvano tra le gambe della gente imbronciata, felici di avere un giorno di inaspettata vacanza da scuola.
Le vecchie erano già pronte: tutte avevano portato da casa, per precauzione, il rosario di plastica bianco nel caso ci fosse qualcosa da pregare. E infatti avevano indovinato!
I vecchi invece avevano un tipo di conversazione diversa con la divinità: non adoperavano il rosario e tendevano piuttosto a rinfacciare dettagliatamente a Dio le cose non erano state fatte come si deve.
Il parroco decise di dare un movimento a quella baraonda e iniziò a camminare verso una stradina qualsiasi.
Alla fine, anche se un po’ di controvoglia, tutti iniziarono a formare una lunga processione borbottante, confusa e rassegnata.
Seguivano il crocifisso a testa bassa, poco convinti che quello fosse il giorno giusto per fare quelle cose sacre, ma se proprio c’era la processione da fare e se lo diceva il prete e il Sindaco, allora la processione andava fatta e basta.

La fila di gente vestita di bianco era ormai avviata.
Ogni tanto il parroco diceva qualche parola santa e il resto della gente ascoltava o ripeteva con tono di lamentazione, soprattutto le vecchiette.
Una voce stridula, di colpo, stonò dentro a quel cantilenare liturgico e distratto: era la voce di Alvise Sartor, detto “Schivanèa”: un ragazzino di 5 anni, figlio del panettiere.
Il ragazzino, inspiegabilmente, tutto d’un tratto chiese al parroco, gridando a squarciagola:
“Don Gino, don Gino! Ma per chi è questa processione?”
Tutti si fermarono di scatto.
Il dubbio tornò a serpeggiare tra le anime dei fedeli spaesati.
Un silenzio teso calò di colpo su tutti presenti.
Tutti erano in attesa di una risposta a questo importantissimo e urgente quesito che nessuno aveva proprio previsto.

Il parroco, un po’ a disagio, deglutì, poi guardò al cielo e disse: “questa processione...”
Poi attese qualche lunghissimo secondo in silenzio... (i parroci, si sa, sanno come catturare l’attenzione del pubblico: è una deformazione professionale, lo fanno anche senza volerlo. È più forte di loro). Alla fine disse, come fosse una liberazione:
“Questa processione è per la Madonna.”
Tutti sospirarono di sollievo e gridarono “per la Madonna! Per la Madonna!”

I presenti tornarono allora a star sereni e ripresero di nuovo la processione, anche se sempre a testa bassa e a muso duro.
Sembrava che adesso tutto fosse finalmente tranquillo.
La bianca carovana di persone assonnate avanzò senza intoppi per qualche altro minuto ancora (senza per altro aver molto chiaro dove stava andando...), ma ben presto Schivanèa, che era rimasto pensieroso alla risposta del parroco, urlò di nuovo con quella sua vocina fastidiosa:
“Sì, ma che Madonna è? La Madonna nera? La Madonna Vergine? La Madonna addolorata?... ce ne sono tante di Madonne... mica solo una! ...e questa che Madonna è?”
Subito la madre fece volare una sventola sulla nuca del ragazzino per farlo star zitto una volta per tutte, ma era già troppo tardi: tutta la gente cominciò di nuovo a inquietarsi e questa volta la questione sollevata era davvero troppo difficile da risolvere per tornare a star tranquilli come se niente fosse.
Ognuno ormai aveva il dovere di commentare il suo punto di vista.

C’era chi avanzava dubbi sul fatto che davvero ci fosse “la Madonna giusta”.
Altri, più sbrigativi, ne proponevano una classica, ben conosciuta da tutti, che va sempre bene.
Altri ancora invece volevano approfittare di quella inusuale occasione per dar più luce a una di quelle Madonne che di solito non vengono quasi mai celebrate. Citavano nomi mai sentiti prima.
C’era poi anche chi discuteva in modo molto accanito solo per dire che in fondo bisognava essere più concilianti: una Madonna vale l’altra e era solo il caso di sceglierne una qualsiasi e di continuare a camminare.
Infine chi non credeva alla Madonna non riteneva che, solo per questo fatto, non dovesse dire la sua: ognuno era libero di argomentare il proprio parere riguardo alla Madonna più opportuna per questa processione, fosse egli credente oppure no.
Il brusio era ormai onnipresente. Non si riusciva più a capire niente. Era un caos. L’anarchia!
Tutto sembrava ormai essere andato per sempre alla deriva.

Ma a volte succede che, in mezzo al frastuono e alla confusione, appare uno di quei momenti inspiegabili in cui tutti tacciono contemporaneamente proprio mentre qualcuno dice la cosa importante. In quei momenti miracolosi il baccano svanisce di colpo come per magia e nell'istante successivo, inondato del più cristallino silenzio, si sente solo un’unica voce e niente più.
Il messaggio pronunciato in un momento come questi non può essere ignorato da nessuno.

Fu Alessandro Sartor, il fratello minore di Schivanèa, che aprì bocca al momento giusto, e gridò, ridendo, la sua idea personale:
“lo so io! Lo so io! È per la Madonna della Bomba Atomica!”

Il mistico silenzio aveva oramai reso la frase imponente.
Tutti rimasero zitti e si girarono a guardare il bimbo, di tre anni, vestito per coincidenza di bianco anche lui: rideva felice, tutto fiero di aver dato la sua opinione e che tutti la avessero ascoltata attentamente.
Era evidente che ai suoi occhi di bimbo la proposta gli risultava geniale, bellissima, sublime, un’ispirazione per tutti.
A questo punto però nessuno sapeva più cosa dire.
Cedettero dunque la responsabilità della decisione al prete.
Anche il parroco era senza parole e si guardava attorno per capire cosa ne pensavano i fedeli e cercare aiuto.
Un vecchio con il cappello (bianco anche quello), stanco di tutta quella solfa, ruppe il silenzio e disse: “va ben, va ben. A Madona de a Bonba Atomica... va ben, dai. Se ghe xe a Madona de a peste e a Madona de a batalia, va ben anca questa, ciò! Basta che ndemo vanti però, che mi me go zà stufà de caminar. E me fa mal i ossi”

Tutti ascoltarono un po’ stupiti quelle ultime sorprendenti, ma ragionevoli parole.
Nessuno disse più nulla.
In fondo nessuno voleva complicare oltre la già complessa situazione del parroco e nessuno voleva, soprattutto, cominciare a porsi troppe domande... perché a domanda, risposta... e questo può essere un gioco molto pericoloso per la stabilità psicologica di una comunità in una situazione di confusione e smarrimento così grande.
Quindi praticamente tutti abbassarono la testa e ricominciarono a dondolare lentamente per far riprendere al più presto la processione.
Il parroco, un po’ incredulo, ma spinto dalla volontà dei suoi fedeli, accettò la sua nuova missione cristiana di guidare i concittadini a di celebrare questa nuova e sconosciuta Madonna della Bomba Atomica.
Don Gino si ricompose rapidamente, fece una faccia seria e sicura, e alzò il crocifisso in aria, dicendo forte: “Madonna della Bomba Atomica, prega per noi!”
Alcuni non erano entusiasti di questa nuova Madonna: trovavano l’idea vagamente sacrilega, ma d'altronde, se il prete la accettava, in fondo, qualcosa di giusto doveva pur esserci.
Era lui l’esperto, tutto sommato.
Un professionista del settore sa sicuramente di cosa si sta parlando.
Così anche quelli accettarono di seguire docilmente il gruppo in processione, criticando (questo sì) tutta quella storia, in modo da avere comunque sempre ragione.
Dicevano:  “tanto se el prete el se sbalia xe colpa sua: el xe lù chel ga dito de sì a tuta sta storia dea bonba atomica. El se a vedarà lù, dopo, co so paròn, là sora...”
Risolti quindi i dubbi teologici degli ultimi fedeli poco convinti, finalmente adesso tutto poteva avviarsi tranquillamente.
Tutti avevano assunto la loro posizione e le loro responsabilità sociali.
Tutto in ordine insomma. Tuto puìto.

La processione finalmente riuscì ad andare avanti per un bel pezzo con una certa sacralità e non si poteva negare che cominciava ad essere abbastanza soddisfacente da tutti i punti di vista.
Il parroco guardò compiaciuto la fila di persone dietro di lui e si tranquillizzò: tutto adesso era sotto controllo. Adesso sì sembrava una processione vera, come tutte le altre, una processione come si deve!
Tutto troppo bello per essere vero, insomma... ed ecco che, con un certo spavento, don Gino sentì qualcuno che gli strattonava la saia con insistenza... quel giorno il Signore lo voleva proprio mettere alla prova...
Con un pizzico di panico controllato il prete guardò in basso temendo di imbattersi in una nuova complicazione imprevista...
Ed eccolo: era di nuovo Alessandro Sartor, quel piccolo bambino, precoce inventore della dedicatoria divina di quella strana processione.
Tirava la saia del parroco per attirare la sua attenzione: voleva dirgli qualcosa.
Il bamboccio evidentemente ci aveva preso gusto ad essere ascoltato.
Sicuramente adesso voleva aggiungere più dettagli alla sua creatività mistica riguardo alla Madonna, trasformando così la sua vittoria sociale in un vero e proprio trionfo.
Il prete sentì sulla fronte una goccia di sudore freddo...

“Che cosa c’è Alessandro?” chiese il parroco inquieto...
Alessandro, ridendo, rispose:
“Don Gino, la Madonna della Bomba Atomica ha la pelle verde! E ha le ali da farfalla!”
Don Gino si guardò intorno, con un sorriso isterico e uno sguardo insicuro.
I fedeli attorno invece lo stavano guardando imbronciati, seri e inquisitori, osservandolo attentamente, con una certa minacciosità...
Il prete allora tentò la soluzione più sbrigativa: guardò il bimbo e disse ad alta voce: “certo, Alessandro. La Madonna della Bomba Atomica è verde e ha le ali da farfalla”.
Poi aspettò ad occhi chiusi la reazione della comunità, sperando nel miracolo.
Tutti risposero forte in coro “Amen!” e si rimisero in marcia.

La processione continuò per quasi tutta la giornata, facendo il giro di tutte le stradine del paese, alcune anche cinque volte.
E questa volta tutto continuò senza più nessun intoppo.

Contro ogni previsione quindi anche quel giorno fu solo un altro giorno di normalità in pianura e tutto filò liscio e tranquillo come sempre nel paese di Ca’Bromestega.

La sera tutti tornarono a casa stanchi, ma anche abbastanza soddisfatti.
Solo più tardi, al tramonto, si alzò un vento freddo, improvviso e minaccioso.
In lontananza, nell'orizzonte, una grande nube, come una colonna gigantesca, si elevò nel cielo rosso.
Ma non era una nube di pioggia.


Monday, 13 October 2014

bomba a mano dell'amore

prima si facevano guerre brutali per uccidere i nemici con armi letali
adesso si fanno missioni di pace per aiutare il popolo oppresso con armi intelligenti
l'evoluzione sarà:
fare gite militari e picnic bellici per divertire i bambini con armi amorose e simpatiche

e per aprire questa nuova fase dell'ipocrisia militare ecco a voi il primo esemplare della nuova generazione di armi simpatiche e amorose: la granata dell'amore, o bomba a mano dell'amore!
eccola:


la granata dell'amore porterà gioia e felicità a tutti coloro che la vedranno scoppiare per una buona causa! siate felici! saltare in aria con un cuore è molto più bello e gioioso!


Friday, 31 January 2014

parque de la destrucción

yo soy un famoso catastrofista. en el sentido que me encanta imaginar la destrucción, adoro las ruinas y me fascinan las cosas derrocadas.
a lo mejor este tipo de atracción hacia la decadencia o hacia la destrucción no será algo común a todo el mundo pero mucha gente no podrá negar que las ruinas tienen un tipo de belleza especial una especie de maravilla, un encanto llamativo o imaginativo.
esto es muy normal: las ruinas de los templos egipcios o tailandeses son maravillosas, moverse por roma, estanbul o subir al macchu picchu tiene una increíble fascinación.  pero en esos casos que acabo de poner como ejemplo hay un factor importante: el drama de los acontecimientos que produjeron esas ruinas están olvidados, asimilados y pacificados por la historia.
la gran muralla no "duele" por todos los muertos de las guerras que dieron origen a su construcción, ni las pirámides nos atormentan con el recuerdo del sufrimiento de todos los esclavos que trabajaron en ella.

hay en cambio algunas destrucciones que se han producido más recientemente en la historia y que representan de alguna manera heridas abiertas y no sanadas para la gente que ahí vivía.
más de una vez me encontré en algunos de estos sitios.
lugares como l'aquila (completamente destrozada por un terremoto de un día al otro), belchite (ciudad arrasada por la guerra civil española), prácticamente todas las ciudades de angola (arruinadas por una guerra que no paró nunca durante 40 años)...
todos estos son lugares evidentemente dramáticos, pero hay un lugar en concreto que me hizo reflexionar de manera muy especial sobre el tema de la destrucción y este sitio es varsovia.

varsovia es una ciudad que fue completamente arrasada por los alemanes. sistemáticamente fue bombardeada y destrozada para que no quedara nada de la ciudad antigua (una ciudad que era preciosa, como demuestran las fotos y las grabaciones de antes del 1945).
resulta que cuando la guerra acabó los habitantes de varsovia se encontraron con una inmensa ruina de su propria querida ciudad. lo que hicieron fue reaccionar de dos maneras: reconstruir el centro de la ciudad como era antes de la destrucción y el resto de la ciudad construirlo de nuevo encima de las ruinas de la ciudad antigua según un plano completamente nuevo y moderno (soviético, en este caso).

varsovia me dio mucho de pensar porque para mi es un símbolo clásico de las dos típicas reacciones que la colectividad da instintivamente a una destrucción instantánea e inesperada:
1- volver a construir todo como era antes.
2- construir todo de nuevo olvidándose de como era la ciudad antes.
en circunstancias parecidas estas dos reacciones siempre se manifiestan (ejemplos hay muchos: las torres gemelas es uno de ellos, o la misma l'aquila en italia de la cual ya hablé).

antes de pasar por varsovia creía que estas fueran las dos únicas reacciones posibles a una herida de este tipo, pero en la capital polaca se aplicaron las dos y las dos resultan un fracaso rotundo. porqué todo el mundo sigue pensando a varsovia como la ciudad que era antes y no se identifican ni con la ciudad nueva ni con la reconstrucción falsa de la vieja. esto me dio de pensar...
en varsovia parece que la ciudad recordada (o imaginada) sea mas real de la ciudad construida. las imágenes de la ciudad antigua son en todo lado y la gente sigue explicándote la ciudad que era y no la que es. tan fuerte fue el trauma sufrido que en realidad el pasado, el 1945, no pasó sino que se paró, se quedó, como un fantasma, entre las calles de la ciudad nueva.
nadie en varsovia se siente de esta varsovia que tú como turista puedes ir a visitar. todos viven en una varsovia del recuerdo. una varsovia teórica.

por eso llegué a la conclusión que las dos reacciones típicas, las que escribí antes, son dos reacciones comprensibles pero al fin y al cabo erradas: eso porqué la reacción social a la destrucción de la ciudad me acuerda muchísimo la reacción personal a un trauma sufrido por un individuo, por ejemplo, se me ocurrió la reacción que podría imaginarme de parte de una mujer violada.
reconstruir la ciudad vieja me parece como si en este ejemplo la mujer negara lo que ha pasado y siguiera todo normalmente disimulando que nada hubiera acontecido mientras que la reconstrucción radical de la ciudad en cima de la vieja la asocio a un intento de reacción brutal en el cual la mujer va cambiando todo en su vida sin querer nunca más mirar nada de lo que hubo antes.
estas dos reacciones son comprensibles pero básicamente erradas porqué no son equilibradas y no aceptan la realidad de los hechos (por ser demasiado grande por ser asimilada).
en ambos casos no se consigue enfrentarse a lo que pasó y lo que se acaba haciendo es una instintiva huida de un hecho que se quiere negar.
varsovia vive representando, contando, intentando hacer ver como era la ciudad antes. su voluntad es la de hacerte entender el tamaño de la destrucción que sufrió, de la cual no consigue salir.
es por eso que llegué a la conclusión que, en lugar de reconstruirse o de construirse de una manera nueva intentando ocultar su destrucción varsovia sería mucho más feliz de mostrarse en toda su ruina: la prueba seca, total y sin salida de la herida que todavía sigue persiguiendo como un fantasma las mentes de la gente que la habita.

así que creo que como pasa en l'aquila o en otras ciudades destrozadas, en lugar de reconstruirlas de nuevo o de reconstruirlas como eran, la solución más respetuosa y más equilibrada, sería construir el nuevo centro al lado de las viejas ruinas y aceptar tan grande devastación como una prueba innegable de la historia, realizando un parque de las ruinas, visitable, nunca más ocultable.
mostrar la herida por lo que fue, construir pasarelas en medio de las ruinas, dejar que la vegetación se incorpore a lo que quedó al suelo. y lentamente sanar, curarse, recordar, aceptar la historia.



Monday, 14 October 2013

Laboratorio de Café

un video casero en honor del amigo Barista Kim (rey del café) y de Carol que siempre me invitan a sus maravillosos brunches en Poble Nou. 
su casa es un laboratorio secreto de alquimias de café... pero hay que tener cuidado a veces a ciertas reacciones químicas...... cuidado Kim!!!


Thursday, 22 November 2012

Associazioni Criminali

L'ipocrisia del mondo in questi ultimi giorni in cui per l'ennesima volta Gaza è bombardata dal governo nazista di Israele mi fa particolarmente male. Vedendo tanta indifferenza e tanta connivenza da parte di tutte le istituzioni di fronta a un tale massacro ingiustificato e, insieme, tanta gioia per la rielezione di Obama, insieme al premio nobel per la pace all'unione europea e all'assenza di nessuna critica a Israele, sento una grande rabbia repressa.
Queste associazioni logiche che mi sono venute in mente sono piú che altri associazioni criminali.
che schifo...





Tuesday, 23 August 2011

sssscollante sociale

si sa che il calcio è un grande collante sociale... il paese può essere sull'orlo del baratro, ma se la squadra del cuore vince, tutti sono contenti! e poi che importa se uno vuole la secessione, se poi vince l'Italia siamo tutti felici, o che importa se le classi sociali sono comletamente squilibrate e la povertá convive con il lusso sfrenato in modo completamente sproporzionato, se il Brasile vince il mondiale i problemi spariscono! etc etc

insomma, non serve spiegarlo: lo sport è sempre stato un collante nazionale, o sociale, insomma una distrazione di massa dai problemi reali di un paese.
i calciatori sono i nostri circensi del "panem et circenses" che usavano i romani per tener buona la plebe.

certo che peró è anche vero che se uno volesse essere dinamitardo potrebbe utilizzarlo come Ssssscollante sociale!
se uno volesse sottolineare qual è il vero scontro sociale in atto in una societá (e non nasconderlo dietro la bandiera di una squadra o di una nazionale di calcio) potrebbe organizzare un campionato di categorie in opposizione: tipo operai contro industriali, politici contro precari, razzisti contro immigrati, disoccupati contro alti dirigenti, cristiani contro mussulmani....

i giocatori ovviamente dovrebbero appartenere alle categorie sociali della propria squadra.
cosi se uno vuole essere tifoso almeno si potrebbe riconoscere in qualcosa di davvero suo invece di inventarsi una fede calcistica totalmente astratta.

e invece di distrarsi dai problemi sociali, uno inizierebbe a concentrarvisi.

certo sarebbe una specie di bomba a orologeria sociale....
uno scontro diretto di fanatismi, probabilmente.
o forse un confronto catartico... uno spostare sul campo un conflitto latente che non trova sbocco nella realtá...

vabbè, sto fantasticando. in realtá mi piaceva solo l'idea di invertire l'effetto ipnotico dello sport sulla popolazione in una specie di canalizzatore e catalizzatore di problematiche reali.
utopie....


Saturday, 26 March 2011

Libia: cuestión de lugar y de momento

BARCELONA, TRÍPOLI o BENGASI
en Libia las bombas caen donde sea: rebeldes o lealistas que manden en esa u otra ciudad es lo mismo, da igual: los misiles caen sobre las casas.
en Barcelona eso pasaba durante la guerra civil española, pero ahora no.
cuestión de lugar y de momento.

la probabilidad de que algo te caiga en la cabeza en cambio depende de factores imprevisibles.


pero a lo mejor es tan fácil que en Libia te caiga una bomba en la cabeza de que en Barcelona te llueva del cielo un papelito con un mensaje.


cuestión de lugar y de momento.

y buena suerte.

boom!